Mank di David Fincher tra tecnica e storia di Hollywood

Mank di David Fincher, tra tecnica e storia di Hollywood

Mank di David Fincher è un manifesto della Hollywood della grande depressione. La pellicola sulla genesi di Quarto Potere rappresenta il preludio di quello che sarebbe diventata la California anti-comunista, attraverso il ruggito di un’industria artistica che avanzava tecnologicamente, ma soffriva lotte intestine idealiste e economiche.

This is a business where the buyer gets nothing for his money but a memory. What he bought still belongs to the man he who sold it. That’s the real magic of the movies.

Louis B. Mayer – Arliss Howard

Mank è il sogno del cinefilo

Per parlare di questo film, spiegare il contesto, o alcune tecniche utilizzate, potrei dover fare dell’odioso spoiler. Per cui ci tengo a precisare che se non l’hai ancora visto, e sei un  cinefilo incallito, potrei rovinarti un po’ il piacere. Scongiurati i fastidiosi effetti collaterali, posso affermare con una buona dose di certezza che la pellicola di Fincher è un toccasana per gli amanti del cinema, ma potrebbe risultare un po’ indigesta a chi di cinema ne coglie giustamente solo il lato ludico.

david fincher regista di mank

Il regista di Mank, David Fincher

 

Cominciamo col dire che quando sulla poltrona siede Fincher, il buon cinefilo aguzza subito la vista. Negli anni il regista ci ha abituati a un certo tipo di perfezionismo e alla ricerca di intrecci complessi, da snocciolare un poco alla volta davanti agli occhi dello spettatore. Ogni buon regista si abitua a lavorare con un team, quando questo è disponibile, e anche in questo caso possiamo notare una firma della fotografia già conosciuta. Erik Messerschmidt infatti ha già lavorato con il regista americano nella realizzazione di Gone Girl (2016), in Italia pubblicato con il triste nome de L’amore bugiardo: un thriller psicologico tratto dall’omonimo romanzo di Gillian Flynn, che mi sento di consigliare per l’ottimo intreccio. Abbiamo visto il direttore della fotografia anche nel recente Mindhunter, l’acclamata serie noir di Netflix che vede ripercorrere i passi degli agenti del FBI Douglas e Olshaker verso la profilazione dei primi serial killer americani. Ne abbiamo parlato in questo articolo.

Ma perché è importante questa premessa? Perché in Mank c’è qualcosa in più. I lavori di Fincher sono caratterizzati da una visione pulita, moderna e profonda della fotografia. Mank non solo mantiene quella visione pulita, ma accentua l’utilizzo delle tecniche classiche dei film di quel periodo, introdotte dall’ascesa dei film noir nella Hollywood sia dello sfarzo, ma anche della disillusione, del cambiamento, della paura. Con l’introduzione del sonoro, il cinema ha nuovamente stupito il mondo ma è anche diventato schiavo della propaganda. Fincher mette sapientemente in mostra questo lato, utilizzando gli stessi linguaggi dell’epoca.

Mank: il Film, la visione e le controversie

Mank nasce dalla penna di Jack Fincher, ex giornalista e scrittore, e defunto padre del regista. La sceneggiatura avrebbe dovuto trovare la sua produzione già dagli anni ’90, quando fu scritta, ma sfortunatamente non riuscì mai a vedere la luce. Almeno fino allo scorso 2019, quando Netflix diede il via libera alla produzione della pellicola.

Mank viene descritto come la storia della battaglia sulla proprietà intellettuale della sceneggiatura di Quarto potere (Citizen Kane) tra Herman J. Mankiewicz (Gary Oldman) e Orson Welles (Tom Burke). Ad essere sincero sono contento sia stato pubblicato con questo incipit, in quanto questa vicenda è solo lo sfondo della vera trama che si snoda per i 131 minuti di film. A tal proposito posso dire che il film risulta scorrevole e senza intoppi. Raramente si ha la percezione che il montaggio si soffermi troppo su determinate scene, ma anche in quei casi la pazienza dello spettatore viene ripagata con un gusto estetico raffinato.

Il film ricostruisce alcune vicende del recente passato di Mank, che lo hanno portato a dover scrivere, per contratto, la sceneggiatura di Quarto potere in soli 60 giorni. Spinto da Welles, e reduce da un brutto incidente in auto, Mank viene aiutato dalla sua assistente, Rita Alexander (Lily Collins), a portare a termine il suo compito. Il film alterna il presente che procede verso la conclusione del lavoro, con flashback continui che introducono e raccontano i legami tra i personaggi, fulcro attorno al quale ruoterà poi la sceneggiatura del film.

Tom Burke interpreta Orson Welles in Mank (2020)

Tom Burke interpreta Orson Welles in Mank (2020)

La visione di Fincher: Mank unico anti-eroe, contro Welles come approfittatore è un errore ormai riconosciuto, come spiegato nel libro The Making of Citizen Kane di Robert L. Carringer, del 1984. Ma lo stesso Fincher si è più volte pronunciato sulla figura di Welles, ritenendo che l’artista fosse geniale ma al contempo immaturo, riferendosi proprio a Quarto Potere. Secondo Fincher il genio stesso del drammaturgo americano era pompato dal perenne affiancamento di mostri sacri del tempo, sia in fase di scrittura (come Mank), sia di ripresa (come il direttore della fotografia e regista Gregg Toland). L’immaturità di Welles, secondo Fincher, risiedeva nell’ego smisurato che lo vedeva prendersi i meriti di gran parte del lavoro altrui, senza dimostrare un certo rispetto alla settima arte. Tuttavia Welles ha sempre riconosciuto il genio dei suoi collaboratori, pertanto bisogna ammettere che il personaggio interpretato da un Tom Burke in formissima, altri non sia che la visione personale di Fincher.

A piene mani dal cinema noir

Come detto in precedenza, il cinema noir è asceso dopo la grande depressione degli USA, e con l’affermazione del nazionalsocialismo tedesco. Bisogna proiettarsi in un mondo in cui tutto era nuovo, e le tecnologie della settima arte progredivano rapidamente, a dispetto di quelle della vita quotidiana. La mancanza di soldi creava un grande divario tra le sempre più prospere case di produzione di proprietà delle facoltose famiglie ebraiche, e i sindacati dei lavoratori (macchinisti, tecnici delle luci ecc). La disillusione della guerra e la forte immigrazione dall’Europa avevano creato molta diffidenza nella terra del cinema, specialmente perché dalla Germania, e dai paesi invasi, erano arrivati numerosi intellettuali, scappati dalla pressione nazista. Per gli USA del tempo era un forte primo contatto con la matrice di stampo socialista e comunista, sostenitrice della Russia, che fino a quel tempo non esisteva.

gary oldman è mank nel film omonimo di David Fincher

Gary Oldman interpreta Mank, lo scrittore e scenggiatore co-autore di Quarto Potere. In questa scena un esempio di chiaroscuro, tipica dei film noir degli anno ’30-40.

Si svilupparono così linguaggi diversi, più cupi, meno spensierati. L’arrivo del sonoro incrementò ancor di più questi linguaggi. Basti pensare ai western muti che fino a quel momento vedevano sparatorie silenziose e teatrali, con musica da far west di sottofondo, diventare colpi di pistola veri, urla di terrore e rantoli. Anche l’illuminazione sui set cambiò radicalmente. I direttori volevano enfatizzare molto di più le espressioni e le atmosfere. Fu il periodo dell’ingegno. Venne introdotto per la prima volta il chiaroscuro, che separava in modo netto le figure in primo piano dai fondali, descrivendo più la silhouette degli attori che la loro intera figura. Le luci, come venivano utilizzate nei film noir, distorcevano la percezione dell’osservatore, trasformando la normalità in qualcosa di inquietante.

L'illuminazione dei film noir in Mank di David Fincher

Barbara Stanwyck nel film Double Indemnity (1944) – Da notare come l’illuminazione accentuata sul volto magnetizzi l’attenzione dello spettatore sulla sua espressione.

 

Cambiò anche l’illuminazione dei volti. Fino a quel momento, nella Hollywood per bene, si tendeva a illuminare bene i volti, cercando il miglior riflesso per gli occhi, così da donare profondità a sguardi intriganti, scintillanti e sognanti. Nei film noir i registi cercavano un’illuminazione più circoscritta e ampia allo stesso tempo. Venivano puntate luci spot nella zona degli occhi, anche se innaturale per la scena. In questo modo risaltavano pesantemente espressioni di ansia, terrore e stupore, e si donava più mistero allo sguardo di donne fatali, o osservatori nascosti. Si aggiungevano poi i cosiddetti cookies e gobos, giochi di luce che enfatizzavano situazioni di pericolo, o di calma (le classiche ombre da veneziane tirate).

Tutte queste tecniche non sono affatto morte con il declino dei film noir, al contrario. Hanno influenzato e continuano a influenzare la Hollywood odierna, e il cinema mondiale, poiché hanno creato un’ ineguagliabile dizionario degli stati d’animo umani, e tutt’oggi continuano ad essere universali.

Va evidenziata in Mank la costante delle luci ambientali, come lampade, lampioni, camini, che permettono a Fincher di mantenere sempre un controllo sulle ombre, soprattutto su set grandi, con molte figure. Ho notato personalmente che questo tipo di luce ambientale la troviamo in scene in cui Mank ha a che fare con lo sfarzo delle abitudini dei produttori, e degli azionisti. Che sia quindi un modo per comunicare lo sfarzo e il distacco di questo ambiente dai problemi reali della Los Angeles di quegli anni, evidenziando così la natura socialista e democratica dello scrittore?

David Fincher utilizza magistralmente questo bagaglio di evoluzione cinematografica, mescolandolo con la sua visione della narrazione e il suo modo esasperante di dirigere. Il regista americano non è nuovo a critiche da parte degli attori che lavorano alle sue pellicole, per il modo in cui arriva a esasperarli. Numerose testimonianze, fin dagli albori della carriera di Fincher, lo vedono come il regista così legato alla perfezione da imporre infinite take anche per piccole scene. Anche Gary Oldman è stato vittima del regista, uscendo da una sessione di 100 take, per un unica scena. Immagina di ripetere per 100 volte la stessa scena, non capendo quale sia il motivo per cui quella precedente non ha funzionato nella testa del regista! Un modo controverso di spingere gli attori verso prestazioni elevate. Un sistema che, per quanto discutibile, ha portato ottimi risultati (Seven, Zodiac, Mindhunter), seppur non nuovo al mondo del cinema. Possiamo ricordare tra questi registi esigenti: Hitchcock, Kubrick e von Trier.

Ancora una volta, attrezzatura esclusiva

Il cinema è fatto di storie, ma dietro la realizzazione ci sono le produzioni che devono coadiuvare una serie infinita di necessità. In generale possiamo dire però che per riuscire a girare un buon film, partendo da un’ottima storia, servono tecnica, attrezzatura e budget. Le ricerca della perfezione di Fincher, e il suo successo ovviamente, lo hanno portato a stringere una forte collaborazione con la Red Camera Cinema Company, una delle più grandi industrie americane produttrice di cineprese e attrezzatura per il cinema. La Red aveva già costruito un modello custom per Fincher: la Red Xenomorph, realizzata per produrre la serie Mindhunter.

mank red camera david fincher

La versione Custom della Red Monstro Monochrome realizzata esclusivamente per Mank

Ancora una volta apprendiamo che la Red produce una camera custom per Fincher, questa volta con esigenze diverse. Il film sarà girato direttamente in bianco e nero, e non a colori, per poi essere desaturato. Questa opzione permette al sensore della camera, una Red Monstro Monochrome, di catturare più luce, e con più precisione, evitando perdita di qualità in fase di post produzione e una nitidezza superiore.

Non bisogna assolutamente fraintendere il concetto del bianco e nero. La scelta di girare in monocromia non è solo un omaggio al passato, o una scelta eclettica che deve per forza immortalare Fincher come un genio. Il colore, o la sua assenza, è un linguaggio, e come tale influisce sulla narrazione. Ne fu un esempio Schindler’s List. Se fosse stato presentato a colori, avrebbe avuto le stesse atmosfere? Il color grading, ovvero il look che la pellicola ottiene nel momento in cui è commercializzata, è un processo che parte dalla color correction, e serve a comunicare e aiutare l’immersione dello spettatore nella storia. Per renderla semplice: quando una scena è girata nel deserto la color vira verso toni caldi, mentre in un thriller nordico avremo un look più freddo, con toni di blu. Nel panorama attuale, in cui il grading ha sempre più importanza, e l’occhio dello spettatore è ormai assuefatto a colori surreali, girare in bianco e nero è un atto di coraggio, che comunque rende la pellicola difficile da digerire a molti. Non significa che sia migliore solo perché in bianco e nero. Significa solo che sceglie di parlare allo spettatore in un determinato modo.

Mank è un capolavoro?

Difficile dire cosa sia un capolavoro di questi tempi. Le tecniche, le storie, i linguaggi e i budget sono diventati così inarrivabili da rendere lo straordinario quasi ordinario. La velocità con cui vengono proposti film e serie ne impedisce la corretta fruizione, ma soprattutto la corretta digestione, e spesso non si fa in tempo a rimuginare a sufficienza su un prodotto, che subito viene bollato come capolavoro o come flop, per poi buttarsi a capofitto in quello dopo. Quello che mi sento di affermare è come Mank si proponga come un biopic ben scritto, adattamento di una storia interessante, in cui sono stati messi estro artistico, ottima tecnica e un budget adeguato. Tutto giusto? Si, ma alla fine si può dire che questa pellicola suoni un po’ come il jazz: ad ascoltare attentamente saranno solo i musicisti, mentre gli ascoltatori che sono venuti per divertirsi rimarranno un po’ perplessi.

Vittorio Bottini