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Westville Story – Giorno 1 – Ronnie Prima

Il fumo di una sigaretta.

Il sibilo di un proiettile.

Le urla del vicinato.

Intorno a me tutto andava in frantumi. Le schegge di vetro volavano co me trapezisti al circo, infrangendosi contro il muro, contro il mobilio, contro di noi. Una sinfonia di morte riecheggiava come un’opera rock, ed io non riuscivo a far altro che guardare nei suoi occhi.
Il suo collo esplose come un geyser, e il suo sangue caldo si appiccò al mio volto. Una goccia scese lungo la fronte, ma non capivo se fosse sangue o sudore. Osservai i suoi occhi rigirarsi all’indietro e ascoltai con attenzione il suo ultimo respiro, a cui non volle staccarsi, come fosse l’unica cosa che contasse nella sua vita. Riguardavo quella scena per la centesima, forse millesima volta. La polizia urlava, io correvo, ed ogni volta che entravo in una catapecchia per nascondermi dovevo assistere nuovamente alla medesima scena.

«Basta!»

Mi svegliai nel mio letto, quello che da cinque anni ospitava i miei peggiori incubi. Finalmente riuscii ad asciugarmi quella maledetta goccia di sudore dalla fronte. Ogni ansimo mi squarciava il petto. Speravo fosse l’ultimo, ma l’ultimo non sembrava mai abbastanza.
Un ultimo per ritornare alla realtà.
Presi un’American Spirit dal pacchetto mezzo rotto. Con la mano allungata nel buio afferrai l’accendino e mi issai comodo. Appoggiai la schiena ancora umida al freddo muro intonacato di bianco, e un brivido mi percorse la schiena. Chiusi gli occhi.
Accesi la sigaretta e rimasi a fissare quel pallino rosso incandescente.
Presi della paroxetina dal cassetto, giusto un paio di pastiglie che ingoiai senz’acqua, e tornai ai miei incubi.
Avevo provato a eliminare quel dannato raggio di sole che filtrava dalla finestra, ma tutte le mattine veniva a darmi il buongiorno.
Il trauma della luce, il trauma della nascita.
Mi alzai, e rimasi seduto con la faccia nei palmi per un po’, poi mi accorsi di dover pisciare. Con in una mano l’uccello e l’altra aperta sul muro pensai di fare colazione al Larry Bucket’s Cafè, con una di quel-le tanto deliziose quanto industriali ciambelle al cioccolato e nocciole, accompagnate da un bel clistere da mezzo litro di caffè nero come la notte. Ci sarei andato di corsa, come tutte le mattine, prima di mettermi a spulciare la mail del lavoro, tra le solite imbarazzanti richieste: mariti adulteri, spionaggio industriale da quattro soldi e l’immancabile micetto scomparso.
Uscii dalla porta e salii le scale per raggiungere il marciapiede, poi infilai le cuffie ed impostai la riproduzione casuale. Sulle note di Free Bird dei Lynyrd Skynyrd lasciai il mio quartiere. Passai accanto al parco di Greenwater, poi giù per la zona residenziale di Saint John Baptist. Girai per la statale sessantuno, poi imboccai la quarantaquattro fino alla piazza antecedente il Mississippi e mi fermai alla fontana prima del Larry’s. Mi rinfrescai, passandomi le mani bagnate tra i capelli e sulla barba ispida. Più tardi avrei pensato a radermi. Guardai le mie braccia, un collage di tatuaggi che raccontavano i miei trentadue anni di stenti. Una storia cominciata nei bassifondi di New Orleans, giunta fino alla normalissima Westville. Un viaggio fatto di vizi, ossessioni, paranoie; affrontato con l’unico compagno di viaggi che mi era rimasto fedele: il mio sesto senso, una calamita per il marciume urbano.
Quello era il lavoro per cui ero nato.
Centoquartantaduemilaquattrocentonovantadue anime, tutte consapevoli che in quella città si nascondeva il peggio. Non erano necessari studi di criminologia per vederlo, né lezioni di scienze politiche per capirne il motivo. Westville era parte del mondo, e come il resto del mondo era incasinata. Trasferirmi da New Orleans a Westville non ave-va cambiato di molto le cose. Tiravo a campare, cercando di starmene il più possibile lontano dai guai.
«La sua torta, vuole del caffè?» disse la cameriera. Poi sorrise. Annuii e ringraziai senza guardarla, come a voler evitare altri convenevoli di circostanza.
Mi accorsi di quanto fosse stato crudele il tempo. Gli anni del col-lege erano volati, e con loro i sorrisi, le feste, le ragazze. Non che non esistessero più ragazze, ma i loro sorrisi avevano perso di efficacia, si spegnevano sotto i duri colpi della vita. Ragazze vivaci, che al college collezionavano baci dietro al campo sportivo, si trovavano ora a doversi infilare sotto le scrivanie per ottenere un lavoro decente. Oppure le in-contravi al supermercato con una fede al dito, un bambino in grembo e un occhio nero sotto il trucco.
Il marcio della mediocrità moderna.
La torta e il caffè mi bastarono per scrollare definitivamente il torpore di una notte sudata.
Corsi fino a casa e, dopo una lunga doccia, mi preparai ad affrontare quella che speravo sarebbe stata una proficua giornata lavorativa.
Aprii la casella mail.

[email protected]
Richiesta preventivo spionaggio industriale

[email protected]
Richiesta ingaggio, lavoro discreto

Di solito ero più propenso ad accettare le richieste di spionaggio indu-striale, la tariffa oraria era più alta, e potevo sbizzarrirmi maggiormente con cimici e scansioni tecnologiche, tuttavia non potevo nascondere un certo interesse per quel nome: Laura Miller.

Suonava libidinoso.
Aprii la mail divertito, aspettandomi una disperata moglie gelosa.

Oggetto: Richiesta ingaggio, lavoro discreto
Da: [email protected]
A: [email protected]

Buongiorno Sig. Prima,

le scrivo in merito all’omicidio del giornalista Michael Monroe, sono sicura che ha seguito le vicende. Vorrei ingaggiarla per far luce su alcuni dettagli.
Certa di un suo gentile riscontro, porgo cordiali saluti.

Laura Miller

Doccia ghiacciata.
Forse sarebbe stato meglio lo spionaggio industriale.
Mi buttai all’indietro e sprofondai nello schienale della sedia da ufficio. Afferrai una Spirit, me la cacciai tra le labbra e l’accesi, ma sentivo più il bisogno di un sedativo per cavalli.
Laura Miller. Chiunque fosse non voleva farsi rintracciare o comunque sapeva che sarei stato in grado di farlo. Probabilmente aveva offuscato il Whois, il protocollo che mi avrebbe permesso di scoprire pressappoco tutto di lei. I miei pensieri correvano. Si scontravano. Forse mi creavo più problemi di quanti avrei dovuto farmene. Forse bastava rifiutare.
Avevo lasciato la polizia e la mia città, con l’intento di tenermi a di-stanza da storie di omicidi, assassini e puttane. In pochi secondi ero ri-piombato dentro un incubo da cui mi ero ripromesso di stare alla larga. La claustrofobia e quel senso di oppressione che mi accompagnavano da qualche anno tornarono a farmi visita.
Cercai della paroxetina, ma scoprii con amara sorpresa di averla finita durante la notte.
Conobbi Singer in un jazz club in centro. Un afroamericano dalla voce calda e roca, che nel tempo libero cantava blues tormentati nelle bettole delle vie centrali di Westville. Ero appena arrivato dalla grande città e i miei vizi segnavano ancora le mie narici. In una pausa Singer capitò al bancone affianco a me, chiedendo una birra. Mi guardò, mi studiò e riconobbe sul mio volto una richiesta d’aiuto. Da quel giorno non toccai più un granello di polvere. Singer mi procurò della paroxetina, che rubava dalle dispense ben fornite dal Saint Raphael Hospital, dove lavorava come inserviente part-time. Arrotondava lo stipendio trafugando farmaci non specifici e da banco. Tutto sommato Singer aiutava le persone con dei problemi. Era il Robin Hood della sanità mentale: costava meno di una farmacia e non chiedeva la ricetta. Grazie a lui mi ero ripulito, avevo dato l’esame ed ero riuscito a prendere la licenza da investigatore privato.
Scrissi un messaggio a Singer. Gli diedi appuntamento per cena, fuori dalla tavola calda di fronte all’ospedale. Poi risposi telegraficamente a Laura Miller, rifiutando l’incarico. Mi tolsi quel pesante macigno dallo stomaco, ignaro che da lì a pochi minuti sarebbe arrivata la sua risposta, improvvisa come un temporale estivo.

Oggetto: Re: Re: Richiesta ingaggio, lavoro discreto
Da: [email protected]
A: [email protected]

Sig. Prima,

sono felice di riscontrare in Lei una modestia invidiabile, tuttavia il suo curriculum è abbastanza ricco da incentivarmi a insistere. Mi per doni l’arroganza, ma purtroppo ho un lasso di tempo limitato per poter risol-vere questo mi stero che mi lascia del tutto perplessa. A tal proposito avrei disposto un bonifico a suo credito di cinquemila dollari come ingaggio, ed al tri tremila per eventuali spese, ai quali si sommerebbero dodicimila dollari al termine delle indagini, alla presentazione di risultati accetta bili. Ovviamente tutte le spese dimostrabili oltre la soglia dei tremila Le ver-ranno rimborsa te, indipendentemente dalla riuscita del lavoro.
Le chiedo gentilmente di riprendere in considerazione la mia offerta. Nel caso contrario la prego di accettare l’anticipo come risarcimento, per il tempo rubatole.
Confido nella sua lucidità.

Saluti.
Laura Miller

Diciassettemila dollari puliti, con un rimborso da capogiro, per un’indagine di omicidio.
Prima di riflettere lucidamente a questa faccenda avevo bisogno di in-contrare Singer. Avevo bisogno di un consiglio, di un ginger ale fresco e di un flacone nuovo di Paroxetina.
Singer mi stava attendendo appoggiato al bancone. Ci abbracciammo, poi scherzando mi disse «sempre in anticipo eh!»
Ci sedemmo e la cameriera venne a prendere l’ordinazione. La targhetta sulla camicetta annunciava “Dora”. Finito il suo lavoro si congedò con un sorriso, e noi seguimmo con lo sguardo quelle meravigliose gambe tatuate, dritte, senza imperfezioni, che sparirono dietro il banco. Alzando lo sguardo sopra il bancone notai la sua pelle bianca del collo unirsi con i boccoli rossi dei suoi capelli.
«Un’altra bella ragazza che cadrà, sotto il peso dell’emancipazione che l’essere umano ha preteso nei confronti di questo pianeta…» affermai con placido ma sconfortante pessimismo
«Senti, io apprezzo questo tuo essere tutto strambo, ma cristo, due belle gambe sono due belle gambe… volevo chiederle di uscire, ma ora ho solo voglia di suicidarmi!» protestò Singer.
«A proposito di ragazze, le mie ce le hai?» gli chiesi subito.
«Certo che le ho!» allungando una mano sotto il tavolo mi spinse sulla gamba un flacone. Io lo afferrai e lo infilai in tasca.
«Allora, come stai?» mi chiese Singer.
«Incubi per lo più, ma anche tanta paranoia»
Lui si strinse nelle spalle larghe, e alzò gli occhi al cielo, poi mi guardò. «Ronnie devi uscire di casa.»
«Io esco!»
«No davvero, con la testa! Devi smetterla di rintanarti in te, devi provare a fidarti delle persone, devi uscire da quel quartiere di New Orleans. Ora sei a Westville, bello, qui la gente si parla, va insieme agli incontri, qualche volta si beve una birra in compagnia. Lo so bene che non è facile, che la merda piove anche qui, ma renditi conto di una cosa: il tuo unico amico è il tuo spacciatore!»
Rimase fermo a fissarmi, ad aspettare probabilmente una mia risposta, o una mia reazione.
«So che hai ragione, e forse sto anche cominciando a capirlo. A tal proposito, in qualità di migliore ed unico amico, avrei bisogno di uno dei tuoi consigli.»
Nel frattempo giunse Dora con i nostri tortini di patate, il mio ginger ale e la birra per Singer.
La ragazza sorrise guardando i miei tatuaggi e mi chiese cosa significassero.
«Che da giovane ero un cretino» la liquidai bruscamente. Ovviamente se ne andò risentita. Quel risentimento che solo una giovane donna poteva provare, davanti ad un rifiuto categorico delle sue attenzioni.
«Sei un cretino tutt’ora.» mi ammonì Singer.
«Lo so… No davvero ascolta» lo incalzai «mi ha scritto una sconosciuta, che ha del lavoro per me, e che me lo pagherà profumatamente. Questa sa delle cose sul mio passato, sul mio curriculum o così afferma. Praticamente è un fantasma, non sono riuscito nemmeno a rintracciarla.»
«Ti minaccia?»
«No! Anzi! Mi dice che mi ha già fatto un bonifico, e che se il lavoro non lo voglio mi posso tenere l’anticipo, e alla fine mi salda il tutto. Ah! Non dimentichiamo un rimborso spese da capogiro!»
«Mh, amico, ‘sta roba mi puzza!» mi avvertì Singer.
«Anche a me!»
Fuori il sole iniziava a calare e le luci delle case e dei negozi ad accendersi. Il nostro tavolo era alla vetrina, e il vetro rifletteva l’insegna al neon: “Aperto”. Guardavo fuori, convinto che da qualche parte dietro al rosso fuoco del sole della Louisiana, tra le facce esauste e gli insetti, una Laura Miller mi stesse osservando.
«Ok, ma il lavoro quale sarebbe?» domandò Singer.
«Omicidio… devo indagare su un omicidio.»
Singer scosse la testa e sorrise, mostrando la fessura pronunciata tra i suoi incisivi superiori.
«È una puttanata amico!» mi scherzò.
«Lo penso anche io.» e gli diedi ragione «però sono tanti soldi!»
«Amico, cosa ci fai con i soldi? Tutta la gente con cui sono cresciuto voleva fare soldi, tranne me. Ora loro sono morti, mentre io sono vivo. Qualcosa vorrà pur dire, non credi?»
Gli feci cenno di abbassare la voce, o avremmo spaventato tutto il lo-cale.
«Mi servono per tornare a New Orleans, e portare via una persona che non vedo da tanti anni.»
Singer mi guardò, poi fissò il tortino di patate. Mi ricordai di non aver ancora mangiato dalla mattina, così lo afferrai e me lo portai voracemente alla bocca. Mangiammo in silenzio.
Finito il fugace pasto feci un lungo sorso di ginger ale e mi accesi una sigaretta. Porsi il pacchetto verso Singer per gentilezza, ma sapevo che non fumava. Fece solo un cenno del capo.
«Senti Ronnie, io non so cosa, o chi, tu abbia lasciato in quel posto, ma se questi soldi davvero ti servono… insomma, se provare a raggiungere questo tuo obiettivo potrebbe riportarti nel mondo dei vivi… rischia!»
Ascoltai le parole di Singer fissando la sigaretta bruciare sopra il posacenere, e perdere pezzi lentamente. Mi venne da sorridere, ma i dubbi tormentavano ancora i miei pensieri.
Pagai il conto anche per Singer, e lasciai qualche banconota accartocciata a Dora, sperando si dimenticasse della mia maleducazione.
Uscimmo dal locale.
L’imbrunire stava lasciando posto alla notte, e il cielo si faceva sempre più blu intenso. Il tappeto di puntini luminosi andava in contrasto con le sfumature rosa aggrappate alle nuvole, che di lì a poco si sarebbero spente. Camminammo per la piazza davanti l’ospedale, fino alla sua macchina.
«Oh, Ronnie! Mi raccomando, stai in guardia e tienimi aggiornato, per qualsiasi problema… E torna da quello splendore lì dentro. Chiedile scusa e invitala a bere una birra»
«Io non bevo…»
«Sempre scuse» disse ridendo, con una mano alzata in cenno di saluto. Saltò in macchina e scomparve tra le vie di Westville.
Era una bella serata: calda, umida e tranquilla. La gente camminava per il centro pacifica e serena.
Senza accorgermene passeggiai così tanto che la notte aveva ormai inghiottito la città e la temperatura stuzzicava i miei sensi. Pensai a tutto quello che avevo lasciato a New Orleans e a tutto quello che avrei voluto fare nella mia vita. Forse ero su di giri, forse davvero stavo guarendo, forse potevo trovare la forza di concludere qualcosa nella mia vita.
Forse.
Infilai una mano nella tasca destra e tirai fuori il pacchetto di sigarette vuoto. Brutto vizio quello di non mettere cestini dell’immondizia in giro. Va a finire che ti riempi le tasche di cartacce. Fortunatamente a pochi passi da me c’era una piccola drogheria. Erano tanti anni che non mi sentivo così, inebriato dalla notte, quasi sereno, con della ritrovata voglia di miglioramento. Avevo voglia di assaporare del tabacco Perique. Entrai nel negozietto e andai verso la cassa, ignorando qualsiasi altro genere di conforto.
Il destino mi regalò una seconda possibilità: alla cassa incontrai la cameriera del diner, intenta nell’acquisto di caramelle e sigarette.
«Scusa per prima alla tavola calda, non era mia intenzione essere male-ducato. Piacere mi chiamo Ronnie. Ti chiami Dora, giusto?»
Lei annuì e mi porse la mano: «Piacere mio»
La sua mano era piccola, fredda ma sudata, come quando uno ha l’influenza. Le unghie erano spezzate, o mangiate, e lo smalto nero era vecchio di giorni. Anche lo smalto dei suoi denti era rovinato. Quello che fino a poco prima sembrava un essere perfetto ora mostrava tutti i lati dell’imperfezione umana.
«Hai bisogno che ti accompagni a casa?» le chiesi per essere cortese, ma lei sorrise e fece cenno di no con la testa. Si avviò all’uscita, ma dopo solo due passi si girò e mi squadrò con astio.
«Il numero di telefono non te lo lascio, tanto sai dove lavoro». Si girò e sparì nella notte, con la sicurezza di aver pareggiato i conti con la mia maleducazione.
Quella ragazza mi turbava molto. Ero attratto da lei, ma allo stesso tempo provavo una strana repulsione. Probabilmente ero più affasci nato che attratto.
Pagai le mie sigarette, due pacchetti, e mi affrettai. La fretta di chi perde il treno.
Intravidi Dora girare l’isolato dopo il negozio, mi accostai al muro e arrivai all’angolo. Mi sporsi leggermente con la testa, oltre il palazzo. Passi piccoli, quasi a voler nascondere una mancanza di equilibrio, tuttavia svelti, frettolosi, affannati. Proseguì per altri due isolati con la stessa andatura. Continuai a seguirla, chiedendomi tuttavia perché lo stessi facendo. Eravamo ormai vicini a Greenwater, dove la notte potevi fare una cosa soltanto. Compare droga.
Ero consapevole di non essere il migliore degli uomini, ma avevo una certezza in cuor mio: ero un bravo sbirro. Mentalmente tornai ai tempi dell’accademia. Ripassai tutti i tipi di droghe, naturali o sintetiche, che avevo studiato sui manuali e sulla mia pelle, concentrandomi principalmente sugli effetti. Le sue piccole mani fredde e sudate, lo smalto dei denti rovinato, le pupille molto dilatate. Tuttavia i suoi riflessi erano buoni, non sembrava affatto rallentata, e la dipendenza non si manifestava ancora in situazioni ordinarie. Non potevo averne la completa certezza, ma mi convinsi che Dora fosse ad uno stadio primario di tossicodipendenza da eroina. Probabilmente fumata, data l’assenza di buchi sulle braccia o bruciature sulle narici.
Tutti stavano cadendo sotto il peso delle nostre città, dove i mattoni venivano tenuti insieme dalla droga, dalla violenza e dall’usuale menefreghismo, i cui collanti erano la rabbia e la paura. Erano le strade che veicolavano il bisogno di denigrare gli altri, di trattarli da reietti, da diversi. Quelle vittime avrebbero fatto stare meglio la grande fetta di popolazione che, indisturbata, portava il figlio a scuola, andava con gli amici al bar, si comprava la macchina familiare e andava a votare.
La storia del mondo si erge sul bisogno di essere migliori degli altri e mai migliori di se stessi. L’automiglioramento non è mai un’opzione, fin-ché si ha il metro di misura giusto.
La piccola e tossica Dora era l’esempio su scala millesimale, di come il mondo ti usa. La gente come Dora era la droga che questo governo spacciava al suo popolo. Li lasciava lì, per le nostre strade, in vetrina a ricordare a tutti gli altri quanto erano migliori, per nascondere invece quanto il loro odio, la loro paura, ma soprattutto il loro menefreghismo alimentasse il grosso ingranaggio.
Noi della narcotici avremmo dovuto aiutare questa gente, non arre-starla. Per quale motivo avevo rischiato la vita tutti i santi giorni? Potevamo anche eliminare tutta la droga del mondo, ma non avremmo mai eliminato i veri spacciatori. Chi diffondeva il movente. L’odio, la paura, la povertà, la mancanza di istruzione, il clima di terrore, la crisi economica e il lavoro precario erano le basi sui cui si ergeva il nostro lavoro. Se qualcuno avesse eliminato quei presupposti, il nostro lavoro sarebbe diminuito drasticamente.
Sospirando aprii il pacchetto di sigarette. Me ne accesi una e camminai verso casa. Non pensai più a nulla. I miei dubbi erano volati via. Avevo in testa solo una tabula rasa. Quando arrivai a casa sentii il peso della se-rata e le gambe cedettero, facendomi tonfare sulla sedia, davanti alla mia scrivania.
Mi ricordai che dovevo ancora rispondere a Laura Miller, così lasciai che fossero le mie sensazioni a guidarmi.

Oggetto: Re: Re: Richiesta ingaggio, lavoro discreto
Da: [email protected]
A: [email protected]

Allegati: modulo di ingaggio – contratto; modulo assicurativo 2/b

Gentile Laura Miller,

ho temporeggiato molto e me ne scuso. Ho avuto modo di riflettere parecchio e prendere in considerazione alcuni aspetti del caso da lei pro-postomi che non mi convincevano affatto. Tuttavia in allegato troverà due moduli: il primo è il contratto di ingaggio da compilare e firmare, il secondo un modulo assicurativo che rende a tutti gli effetti lei responsabile della mia attrezzatura e di un eventuale risarcimento. Tutto è chiaramente spiegato negli stessi. Le chiedo gentilmente di inviarmi una copia di un suo documento d’identità, va bene anche la patente di guida.
Una volta ricevuti gli allegati potrò cominciare le indagini.
Sono sicuro che saprà darmi una dettagliata spiegazione su chi era lei per la vittima e il motivo delle indagini, per poter così iniziare da una pista sicura.

In fede.

Ronald Philip Prima


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